Nel 1985 lo storico incontro di Ginevra tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov sancì la fine della "guerra fredda". E di lì a poco l'impero sovietico sarebbe crollato. Quaranta anni dopo, l'incontro in Alaska tra Donald Trump e Vladimir Putin certifica ciò che è già chiaro da tempo: la fine dell'era del multilateralismo. Non c'è dunque da stupirsi se l'Ue, e persino Kiev, siano stati esclusi da questo summit e se il loro coinvolgimento si limiti, per ora, alla consultazione, a cominciare dalla "conference call" di oggi. Il fatto è che il sistema geopolitico nato dopo la Seconda guerra mondiale giace ormai negli archivi. Così venerdi 15 agosto il destino del mondo dipenderà dall'esito dell'incontro tra due sole persone. Autorevoli certo: ma orfane di principii e di regole condivise cui far riferimento.
Per di più, lo zar e il tycoon rappresentano due visioni opposte della geopolitica. Putin crede nella volontà di potenza degli Stati. Frequenta il linguaggio della forza e della minaccia. Si immagina protagonista di una gloriosa storia che da Pietro il Grande conduce a Stalin. Perciò il suo obiettivo non è certo il solo Donbass. Piuttosto è quello di costruire una nuova grande Russia per la quale ha bisogno, quanto meno, di un'Ucraina a "sovranità limitata". A Trump questa modalità della storia politica, invece, non è affatto congeniale. La sua idea di ordine mondiale è fatta più che altro di affari e commerci, di interessi e strategie finanziarie. Ne consegue che sia il "modello Putin", basato sulla volontà di potenza, sia il "modello Trump", fondato sul primato degli affari, non hanno alcuna parentela con le storiche norme del diritto internazionale. Il quale, appunto, è il vero grande sconfitto del nostro tempo storico.
Ecco allora la difficoltà dell'incontro in Alaska: come è possibile raggiungere un qualsiasi compromesso senza far riferimento a un qualche modello etico-politico sia pur vagamente condiviso? Trump si fa vanto delle sue eccezionali doti di mediatore. Ebbene, il suo "senso degli affari" dovrebbe fargli capire che il cuore della questione non è tanto, come pure ha detto, "uno scambio di territori" (non sono infatti tutti ucraini?) quanto un altro genere di accordo: "territori in cambio di sicurezza". In altre parole, ammesso che Zelensky accetti di cedere (per 49 o 99 anni si dice) le regioni occupate da Mosca, è del tutto evidente che potrà farlo solo in presenza di precise garanzie militari e politiche sulla sicurezza del suo Paese, a medio e lungo termine. Proprio ciò che la volontà di potenza di Putin non intende accettare. E proprio ciò che, al contrario, Trump dovrebbe saper ottenere se vuole mostrarsi un efficace "peacemaker". In realtà sembra quasi che Putin voglia convincere il tycoon a tornare agli schemi della guerra fredda, quando Mosca poteva invadere Praga perché l'intero globo era diviso tra due potenze rivali che si spartivano le sfere d'influenza. Ma non siamo più nel 1968, e non c'è più il muro di Berlino: perciò il suo è un progetto anacronistico e pericoloso. Non solo per Kiev, ma per la sicurezza dell'intera Europa.
E, in fondo, dell' intero mondo. Il quale è giunto ad un tornante decisivo della sua storia. L'invasione russa ha cancellato, dalle regole e dai valori condivisi, persino la sacralità dei confini di una nazione che era comunque rimasta, fino al 2022, un totem del diritto internazionale. L'Onu attraversa un decadente e inquietante tramonto. Il ricorso alla guerra, da eccezione, sta diventando norma. Ce ne sono ben 56 in giro per il pianeta, mai così tante dalla Seconda guerra mondiale. Con un costo annuale di 19 mila miliardi di dollari, 2380 a persona! Il pianeta può permettersi di continuare così? Certo che no. Bisognerebbe allora proporsi un compito simile a quello che i nostri Padri realizzarono nel dopoguerra, riscrivendo insieme valori e norme del nuovo ordine mondiale. Ma chi possiede oggi tale coraggio e lungimiranza? No, non si vedono leader della tempra di Roosevelt o di Churchill. Eppure la Terra troverà pace solo se si tornerà a ragionare "in grande" sui suoi destini. Certo, non si può pretendere nulla di tutto ciò il 15 agosto da Trump e da Putin: sarebbe già tanto che trovassero davvero la via di un cessate il fuoco. Guai però a dimenticare che sull'Ucraina (e in parallelo a Gaza) il mondo si gioca gran parte del suo futuro.