Una donna incinta entra dal cardiologo col compagno. C’è un solo posto a sedere libero in sala d’attesa. Il compagno si siede, lei resta in piedi, visibilmente provata. Di tanto in tanto prova a parlare, lui ringhia: “Ti ho detto che non devi aprir bocca!”. Tutti intorno sono imbarazzati. Qualcuno vorrebbe fare qualcosa, ma in gran parte sono anziani e anziane: hanno paura. Questo episodio di violenza di genere non è inventato, l’ha raccontato una lettrice de IlGiornale in confidenza. E non è un caso limite: se si geolocalizzasse, se si aggiungessero dettagli, non cambierebbe molto. Potrebbe essere accaduta a Bolzano come a Palermo, a Firenze come a Pescara, a Roma come a Milano o Napoli. Perché queste cose accadono, anche se le leggi fanno il possibile, le forze dell’ordine proteggono e indagano, le persone sono sempre più sensibili.
Così, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, IlGiornale decide di pubblicare la testimonianza di un’altra donna, una sopravvissuta alla violenza che ha fatto tesoro della sua esperienza. Si tratta di Elisabetta M., residente in una città della Puglia. Elisabetta ha due figlie piccole e di recente ha intrapreso un percorso in un centro antiviolenza che la sta seguendo a tuttotondo. I nomi dei protagonisti sono stati modificati, a loro tutela e a tutela dei minori coinvolti.
Elisabetta, come sta?
“Adesso bene, ma è grazie alla mia famiglia, alla mia migliore amica e al centro antiviolenza se quello che ho passato è superato”.
Qual è la sua storia?
“Ero appena adolescente quando ho conosciuto Luciano, il mio ex marito. Siamo stati fidanzati alcuni anni e poi ci siamo sposati. Da fidanzati però ci vedevamo poco, per cui credo di aver sottovalutato le sue scenate di gelosia, gli schiaffi quando lo contraddicevo, il suo cercare di imporsi. Ero innamorata, ero troppo giovane e non avevo esperienza in fatto di relazioni: pensavo fosse solo protettivo”.
Quindi il suo ex marito è stato l’unico uomo con cui ha avuto una relazione?
“Sì. Probabilmente è per questo che non ho notato diverse red flag all’inizio”.
Poi cosa è accaduto?
“Dopo il matrimonio, tutto è precipitato. All’inizio, quando sono rimasta incinta per la prima volta, mi ha chiesto di restare a casa. Poi una volta a casa ha venduto la mia auto perché non mi sarebbe servita ed era una spesa in più. Pian piano mi ha allontanata dalla mia famiglia e dai miei amici. Poi le violenze si sono intensificate. Sia quelle fisiche - mi sbatteva al muro, mi prendeva a pugni - sia quelle psicologiche - mi faceva sentire sbagliata, una nullità, tutto quello che accadeva era colpa mia. Ho imparato a capire quando avrebbe colpito con le parole e con le mani: mi bastava sentire il modo in cui chiudeva la porta dietro di sé rientrando in casa”.
Qual è stato il punto di rottura?
“C’è stata una circostanza e un evento specifico che mi hanno spinta a trovare la forza di lasciarlo. Ho sempre covato dentro di me questa necessità, però ne provavo vergogna: mi aveva convinta che sarebbe stato un mio fallimento”.
Quale fu la circostanza?
“Un giorno mi ha confessato che si era innamorato della mia migliore amica. Per me fu un colpo bruttissimo. Lei ovviamente non solo non era interessata, ma lo detestava profondamente, perché fortunatamente lei era la sola con cui ero riuscita a mantenere in segreto un certo livello di complicità, per cui sapeva cosa vivevo ogni giorno. Anche per lei è iniziato un incubo, tanto che a un certo punto ha denunciato Luciano per stalking”.
E l’evento specifico?
“Una sera è tornato a casa come una furia. Mi ero messa a letto con le bambine. Mi ha trascinata via mentre loro dormivano e mi ha portata in camera da letto. Lì mi ha messo al muro per l’ultima volta: mi ha messo le mani al collo e ha cercato di strangolarmi. Provavo a urlare, ma non avevo voce. Pensavo: questo è il giorno in cui muoio. Però le bambine si sono svegliate e sono entrate in camera piangendo. Approfittando di un attimo della sua distrazione mi sono divincolata, le ho prese e sono scappata in strada. Sono riuscita a bussare alla porta di alcuni parenti che abitano nella mia stessa via e loro sono riusciti a mandarlo via dietro la minaccia di chiamare i carabinieri”.
E poi avete presentato denuncia?
“No, quella sera non abbiamo chiamato i carabinieri: avevo ancora troppa vergogna. Con il passare del tempo, anche se ero riuscita a mandarlo via da casa, di tanto in tanto si faceva vivo e ho iniziato ad avere paura che, una volta più grandi, se la sarebbe presa anche con le bambine. Allora ho denunciato”.
Cosa consiglierebbe alle ragazze e alle donne che potrebbero identificarsi nella sua storia?
“Come ho detto, quando è iniziato tutto avevo poca esperienza. Per fortuna le ragazze oggi sono più sveglie, maturano prima e sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma alle donne di tutte le età dico: non fate come me, non sottovalutate i segnali. Un uomo violento non cambia. A ogni pugno, a ogni insulto, a ogni situazione violenta lui mi chiedeva scusa e io speravo fosse sincero. Ma non lo era: la sua natura violenta periodicamente emergeva. Ripeto: grazie alle persone care e al centro antiviolenza sono riuscita a uscirne”.